Solitudini

Solitudini

Solitamente usiamo la parola solitudine per indicare un ventaglio di esperienze, spesso in netto contrasto tra di loro. Quali sono queste esperienze? A volte può capitare di sentirsi soli, in qualche modo lontani dagli altri, ma desiderosi della loro vicinanza. Altre volte ricerchiamo la solitudine fuggendo dal caos quotidiano: è quello che accade quando ci avventuriamo in spazi naturali e selvaggi per rigenerarci.

Ma star da soli può anche significare un profondo contatto con se stessi, per entrare in risonanza con l’altro che ci abita. In questo caso quindi la solitudine favorisce l’incontro, anche tra noi e un buon libro, una canzone o un’opera d’arte. A volte la solitudine diventa una scelta di vita che ci caratterizza stabilmente come persone, altre volte si tratta di un passaggio dell’esistenza che ha la funzione di traghettarci verso luoghi inesplorati.

Se esistono tante tipologie di solitudine, allora possiamo parlare di solitudini, al plurale. In ogni caso, quello che conta, è poter dare un senso alla nostra esperienza soggettiva dello star da soli, in modo da poterla personalizzare, per vivere in maggiore accordo con noi stessi.  L’intento dell’articolo è quello di presentare e delineare queste diverse situazioni, all’interno di una cornice prettamente psicologica. Esiste infatti anche una solitudine intesa come assenza di rete e supporto sociale, argomento di studio proprio della sociologia.

 

La solitudine come modulazione dei rapporti

Apparentemente può sembrare un paradosso, ma ogni solitudine ha a che fare con gli altri. Infatti, in estrema sintesi, ciò che accomuna queste esperienze è il tentativo di gestire il nostro rapporto con l’altro. Uso il termine altro in senso generale, per intendere sia le altre persone che fanno parte della nostra vita, sia gli altri interiorizzati dentro di noi in forma di ricordi e immagini. In entrambi i casi mi riferisco ad un altro conosciuto, che abbiamo già incontrato nel nostro passato.

Quando il rapporto con gli altri diventa in qualche modo difficile da affrontare per noi, perché produce scontro e stress, la solitudine può essere un rifugio che ci pone ad una distanza rassicurante. Infatti i rapporti umani sono fondati sull’amore e sulla cooperazione, ma contengo sempre al loro interno una parte di contraddizioni e ambivalenze, che possono anche prendere il sopravvento.

A volte quindi la solitudine diventa uno spazio protettivo: per esempio quando insorgono conflitti nelle coppie o nella relazione tra genitori e figli, si può cercare di mettere distanza con l’altro per dar vita ad una tregua, spesso però senza riuscire a sciogliere il nodo del problema. Quando il conflitto monta fino a toccare livelli parossistici, allontanarsi può significare attenuare la rabbia, la tristezza e la paura che vengono messe in gioco nei rapporti, e quindi evitare momentaneamente a me stesso e all’altro di soffrire troppo. Nei momenti più conflittuali, in cui la situazione appare fuori controllo, allontanarsi diventa la scelta più saggia.

Si può trovare rifugio nella solitudine e nell’incontro con la natura, che ci può restituire pace e armonia. Frequentare mari, boschi e colline ci mette a contatto con i ritmi della luce, l’alternarsi delle stagioni, il profumo dei fiori e delle terre. Della natura apprezziamo soprattutto il silenzio, o meglio l’assenza del chiacchiericcio e della confusione dei rumori quotidiani, che vengono sostituiti dal suono dello scorrere dell’acqua e del fruscio del vento. Allora ci immergiamo in una quiete armoniosa in cui possiamo rigenerarci.

Tutto ciò ci libera da quella quota di conflittualità di cui sono intrisi i rapporti umani, ma è una libertà relativa, perché in fondo rimaniamo animali sociali, anche se ci isoliamo. Ci allontaniamo dalle persone in carne ed ossa, ma non possiamo escludere gli altri dentro di noi, infatti la nostra mente è costruita a partire dal dialogo con l’altro, che prima o poi affiora dal silenzio della natura, e si presenta alla nostra coscienza. Il pensiero è un dialogo interno con un interlocutore implicito, a cui mi rivolgo per riflettere su ipotesi, scelte, desideri e fantasie. Conserviamo nella nostra psiche una relazione interiorizzata, che si nutre di ricordi, parole e sensazioni.

Quindi si può dire che per quanto ricerchiamo la solitudine, non ci possiamo mai dire completamente soli, perché diamo vita ad una relazione interna con l’altro che ci abita. La qualità di questa relazione con noi stessi spesso è influenzata dalle relazioni passate, dal rapporto con i nostri genitori, con i nostri fratelli e col nostro partner.

Se abbiamo interiorizzato delle relazioni sufficientemente positive potremmo anche beneficiare di un buon rapporto con noi stessi e col mondo; in alcuni casi però ci portiamo dentro i conflitti e le ferite del passato, soprattutto quando questi non sono stati rielaborati e trasformati. Rapporti traumatici e tratteggiati di sofferenza spesso si ripresentano nella nostra vita reale e immaginaria, chiedendoci di essere definitivamente discussi e superati.

In effetti i rapporti negativi interiorizzati possono farci sentire da soli, nel senso che essendo distruttivi e svalutanti,  mortificano la nostra naturale propensione ad entrare in rapporto con l’altro. Infatti se l’esperienza di relazione che abbiamo conosciuto produce malessere, perché mai dovremmo desiderare di aprirci e fidarci degli altri? Allora preferiamo restare da soli piuttosto che stare male.

Possiamo scegliere occasionalmente la solitudine come spazio di ristoro, oppure farne la nostra cifra quotidiana, e in quest’ultimo caso si può parlare in maniere graduale di introversione, fobia sociale e ritiro sociale, visto che queste tre condizioni sono accomunate da un livello via via crescente di solitudine.

Le relazioni fin qui considerate hanno la caratteristica comune di essere relazioni da noi conosciute. Lo star da soli diventa allora una strategia per gestire la distanza che ci separa da quest’altro, con cui siamo già entrati in relazione e di cui conosciamo movimenti, abitudini e risposte. Sono relazioni che ci possono anche far star male, ma non ci sorprendono, anzi ci accorgiamo della ripetizione dei soliti schemi, che ogni volta sembrano inesorabilmente ripresentarsi daccapo.

Non è tutto però, perché esiste anche un’alterità di cui non siamo a conoscenza, sfuggente e crepuscolare, di cui possiamo intuire l’esistenza proprio grazie alla solitudine.

 

La solitudine come nuovo incontro

Dentro di noi esiste un altro tipo d’alterità, nel senso di qualcosa che si differenzia dalla nostra coscienza e dal nostro pensiero, come uno scarto rispetto ai nostri schemi e alle nostre abitudini. Quest’alterità può essere costituita da emozioni, esperienze e fantasie che non siamo soliti frequentare.

Ci possiamo accorgere per la prima volta di quest’alterità quando siamo bambini e ci si presenta sotto forma di sogni, di visioni e immaginazioni, che ci fanno intuire l’esistenza di un mondo alternativo a quello convenzionale in cui si svolge la nostra quotidianità. Nel silenzio e nel buio i bambini riescono a cogliere l’esistenza di qualcosa, una forza amica oppure ostile: la loro prima reazione è di paura o terrore, per questo corrono a chiedere il soccorso dei genitori per essere tranquillizzati. I bambini hanno paura dei fantasmi e dei mostri, che si materializzano quando finisce la giornata e si deve andare a letto da soli, magari al buio.

Di cosa si tratta? Da bambini, ma anche da adulti, è possibile fare esperienza di una solitudine satura di contenuti psichici, una solitudine che consente di percepire l’esistenza di un limite alla nostra coscienza, oltre il quale si avverte la presenza di una psiche più complessa. Questo scarto rispetto al nostro io è irriducibile ed essenziale, nel senso che non può essere annullato. Solo fissando l’orizzonte della mente possiamo renderci conto del profilo di nuove terre che non avevamo considerato, e che ci appaiono ora in tutta la loro portata gravida di domande. Saranno luoghi abitati? E da chi? Da popoli civilizzati oppure ostili, da animali esotici dai piumaggi colorati o da bestie feroci?

Questo fenomeno, lungi da essere qualcosa di patologico, è la prova che esiste in noi qualcosa che ci trascende, che ci supera, una dimensione più estesa rispetto a quella in cui ci muoviamo di solito. Si tratta di un’alterità che non è collegata ad un altro conosciuto, ma a qualcosa d’ignoto che ci viene incontro. L’ignoto può spaventarci perché ricco di emozioni, di possibilità, di sfide e di bisogni inediti. La paura non è imputabile direttamente all’abbandono, o al trauma, o alla carenza di sostegno sociale, infatti in questo caso la solitudine rende possibile un incontro nuovo, che se colto può avere un grande valore evolutivo per la persona.

Ci sono fasi nella vita in cui ci sentiamo fermi, senza energie e avremmo bisogno di rinnovarci e crescere. Da dove cominciare allora se non dall’incontro con il nuovo, con qualcosa che ci metta in discussione rispetto alle nostre abitudini?

È vero che allora ci possiamo sentire soli, esclusi, abbandonati, ma forse perché il nostro io non trova pieno riconoscimento nei rapporti passati e presenti: è il sentimento della mancanza, attivatosi nella solitudine, che permette l’incontro con l’ignoto, ancor prima che questo possa trasformarsi in desiderio d’altro. Lo stato di esclusione ci indica che la struttura della nostra vita non è più in grado di soddisfarci, perché ci riserva una continua dose di frustrazione e delusione.

Forse però nella solitudine ci sono emozioni, bisogni, fantasie che si fanno avanti, ci si avvicinano e ci chiedono di aprirci a loro. Il primo incontro con l’alterità, che sia presente dentro o fuori di noi, è sempre spiazzante perché trascende i nostri schemi, casca sempre fuori dalle nostre aspettative, spesso lasciandoci perplessi. Questo tipo di confronto non è mai comodo, scontato od annoiato, ma è appassionato e coinvolgente, ed è il solo in grado di farci avanzare nella vita.

La psicoterapia prende le mosse proprio da qui: sia Sigmund Freud che Carl Gustav Jung hanno fatto di quest’incontro il loro modello per entrare in dialogo con l’inconscio. Soprattutto nel caso di Jung questo confronto con la propria solitudine risulta emblematico.

Jung all’età di trentotto anni era arrivato all’apice di un successo accademico e il suo nome si era già diffuso a livello internazionale. Lavorava nella più celebre clinica psichiatrica universitaria dell’epoca, il Burghölzli di Zurigo, crocevia della psichiatria europea, e da diversi anni aveva stretto un sodalizio intellettuale con Freud, spinto dall’interesse verso la psicoanalisi e la cura delle nevrosi.

Col passare del tempo però le divergenze di vedute e di carattere tra i due crebbero sempre più, fino al deterioramento irrimediabile dei rapporti. Sempre più insofferente e impetuoso verso la vita, Jung nel giro di qualche anno ruppe la relazione con Freud, chiuse il suo lavoro al Burghölzli e la sua esperienza di docente universitario, per dedicarsi esclusivamente alla sua clientela privata.

Gli anni che vanno dal 1913 al 1919 risultano i più oscuri della vita di Jung, un periodo di intensa introversione durante il quale si cimentò nell’esplorazione del proprio inconscio. Henri Ellenberger, che ha scritto la più grande opera di storiografia della psichiatria dinamica, ha chiamato malattia creativa questo periodo di profonda immersione dentro di sé.

Ogni mattina nel suo studio, Jung scriveva e disegnava il contenuto dei suoi sogni, e si sforzava di entrare in contatto con la sua immaginazione attraverso la creazione di storie. Gradualmente prese contatto con aspetti della sua personalità che gli erano sconosciuti, e chiamò questa esperienza evolutiva individuazione. Sia avvicinò alle parti più rabbiose o ripudiate, e all’aspetto femminile della psiche che è presente in ogni uomo.

Per non naufragare in questo processo immaginativo Jung si ancorò saldamente alla realtà che è fatta di concretezze: il rapporto con la famiglia, con il suo lavoro e con la sua patria. Questo piglio pragmatico nell’approccio con la vita lo caratterizzò fortemente come persona, più di quanto si creda.

La solitudine fu quindi la premessa per l’incontro e il confronto con nuovi aspetti di sé, che nel tempo lo portarono verso una riapertura al mondo esterno, connotata da euforia, e desiderio di spendersi attivamente nella vita. Jung concepì quindi un’introversione che è immersione dentro sé, ma che conduce all’estroversione e al rinnovamento della persona: immergersi per riemergere trasformati. In questo senso possiamo concepire l’introversione non come un tratto stabile della personalità, ma come una funzione della psiche che può essere attivata per un periodo più o meno lungo.

Se all’inizio della malattia creativa lo psichiatra svizzero aveva tagliato i rapporti con l’universo accademico e professionale, alla fine del suo viaggio si ritrovava con un nuovo modello di psicoterapia, che gli permise di distinguersi definitivamente dalla psicoanalisi freudiana.

 

L’incontro che cura

Quello di Jung è l’esempio di uno dei pionieri dell’esplorazione psichica, che è riuscito a contattare il proprio inconscio nel rapporto con se stesso, ben consapevole delle difficoltà e del rischio di distacco dalla realtà. Ma è un caso eccezionale, perché di norma e per semplicità abbiamo bisogno del confronto con un altro reale per poter meglio entrare in rapporto con noi stessi: l’alterità dell’altro infatti ci consente di mettere a fuoco l’alterità che è in noi.

Quando ci si rivolge a un terapeuta, non ci si rivolge banalmente a qualcuno che ne sappia più di noi, ma ad un altro che possieda i parametri dell’incontro, perché niente di meglio di una relazione può mettere in discussione i nostri schemi acquisiti. Siamo animali relazionali e ci sviluppiamo, ci ammaliamo e ci curiamo all’interno delle relazioni.

Può essere quindi illusoria l’idea di riuscire trasformarsi in completa solitudine, o comunque è un evento estremamente raro e complicato: spesso più che un cambiamento, si realizza un isolamento della persona. In ogni caso anche Jung non visse in isolamento durante la sua traversata dell’inconscio, e Dante si fece accompagnare da Virgilio nella sua discesa agli inferi.

Contrariamente a quello che ho appena affermato esiste una frase che suona più o meno così: prima di stare bene in una relazione, bisogna stare bene con se stessi. È una frase che viene utilizzata soprattutto nelle relazioni d’amore, per intendere che la relazione non deve essere cercata soltanto per sfuggire alla propria solitudine; una volta che starai bene con te stesso, allora sarai libero dal cercare l’altro per bisogno.

A bene vedere però questa frase risulta parziale, e quindi in qualche modo fuorviante, perché presuppone che l’essere umano sofferente nella relazione, debba temprarsi in solitudine prima di riaprirsi all’altro. Chiediamoci da che cosa stia fuggendo la persona incapace di star da sola, cosa stia temendo di più. A primo acchito può sembrare un paradosso, ma è proprio l’incontro che lo spaventa.

Prima ho scritto della paura dei bambini piccoli, che nel buio della loro camera da letto vengono a contatto con fantasie, immagini ed emozioni sconosciute. Se i bambini hanno paura dei fantasmi, anche noi adulti possiamo temere qualcosa di analogo, visto che l’incontro con aspetti interni diversi è spesso spiazzante e destabilizzante. A volte abbiamo buoni motivi per temere quest’incontro, perché produce una messa in discussione che ci può affascinare e spaventare allo stesso tempo, qualcosa che desideriamo conoscere, ma che possiamo rifuggire.

L’adulto che teme questi aspetti psichici di sé può allora tentare di diluirli nella socializzazione e nella distrazione, due condizioni ben diverse dall’incontro. Abitudini, rituali, spettacoli, eventi possono essere utilizzati per tentare di evitare l’alterità che ci viene incontro e chiede di essere riconosciuta. Ma sono tutti tentativi momentanei, in quanto l’alterità è essenziale e quindi irriducibile: c’è sempre qualcosa di noi che non avevamo considerato, qualcosa che si scarta dalla nostra vita cosciente.

Inoltre se la nostra esperienza di relazione è stata negativa o traumatica, soffriremo anche nell’incontro con l’altro conosciuto, di cui abbiamo cattivi ricordi e immagini. Quindi rifuggiamo ogni tipo di relazione e ci sentiamo isolati e bloccati, concretizzando un vero e proprio impasse esistenziale.

Alla luce di questo ragionamento la frase citata può essere completamente ribaltata in questo modo: per stare bene da soli bisogna prima di tutto stare bene in una relazione. Stare in relazione è il punto centrale, sia che si tratti di stare da soli (e quindi in rapporto con se stessi e il mondo), sia che si tratti di stare con gli altri. Come fare allora per recuperare la nostra capacità relazionale?

La terapia può fungere da contenitore protetto, utile per superare gli schemi traumatogeni interiorizzati, ed accogliere positivamente emozioni, fantasie e pensieri. Dapprima servirà elaborare le relazioni negative interiorizzate che hanno impedito alla persona di aprirsi, e successivamente ciò che appariva come oscuro potrà rivelarsi positivamente come un prezioso alleato, per fronteggiare le nuove sfide che la vita ci pone davanti.

La relazione terapeutica è uno spazio in cui è possibile far l’incontro con l’alterità in sicurezza, e non al buio della propria solitudine. Il terapeuta è colui che ci accompagna nell’esplorazione di terre, isole e arcipelaghi, aiutandoci ad entrare in contatto con i loro abitanti. Sarà necessario avvicinarsi ai popoli e agli abitanti con rispetto ed attenzione, cercando di interpretare i loro comportamenti e il loro linguaggio, al fine di poter comunicare ed apprendere nuove cose sull’uomo, e quindi su di noi.

Prima di questo passo è però necessario sciogliere la sofferenza, che sta alla base della nostra chiusura al mondo. Le esperienze negative interiorizzate devono essere elaborate, altrimenti non potremmo aprirci con fiducia all’alterità. Sono i rapporti traumatici che giustificano la decisione comprensibile di rimanere chiusi e declinare qualsiasi incontro. Così la relazione terapeutica si dovrà occupare di tutto ciò, e una volta oltrepassato quest’ostacolo si potrà lasciare campo alla naturale propensione relazionale dell’essere umano.

Ciononostante è bene superare l’idea della terapia esclusivamente come immersione in profondità: è vero che inizialmente ci si sofferma su se stessi, sulle proprie abitudini, sui propri schemi, e quindi si scende verticalmente, ma dopo è necessario mettersi in cammino verso l’orizzonte, per estensione nello spazio, verso l’alterità e il mondo. Solo in questo modo non rimaniamo fermi su noi stessi, ma torniamo a procedere nella vita.