L'osservazione del bambino
Una delle caratteristiche principali della psicoanalisi è quella di essersi rivolta fin dall’inizio alle esperienze infantili per rintracciare la genesi della psicopatologia. Tuttavia la conoscenza dei processi psichici del bambino veniva ricostruita a posteriori, dal racconto che i pazienti facevano nella stanza d’analisi. Tramite inferenza e introspezione i primi analisti hanno cercato di capire cosa succedesse nell’inconscio dei più piccoli. Questo modus operandi ha coinciso in parte con la concezione intrapsichica e solipsistica della mente, in cui agivano i fantasmi inconsci. Quale ruolo e quale funzione invece ha avuto l’osservazione diretta del bambino all’interno della psicoanalisi?
Vediamo quali sono le principali tappe dell’uso di questa tecnica fino a giungere al paradigma dell’infant research. Anche se l’osservazione del bambino è stata utilizzata da Freud, ricordiamo il noto gioco del rocchetto riportato in Al di là del principio del piacere, rimane una pratica non sistematizzata durante i primi anni della psicoanalisi. Successivamente, Anna Freud e Melanie Klein applicano il metodo psicoanalitico ai bambini, orientandosi in base a quelle conoscenze che erano disponibili grazie al lavoro con i pazienti adulti. Tuttavia l’osservazione era diretta non tanto alla ricerca di nuove evidenze, ma alla convalida della teoria psicoanalitica, vista la grande importanza attribuita al funzionamento inconscio, a scapito degli elementi di realtà. Infatti, per la Klein i processi inconsci non potevano essere dedotti dall’osservazione, in quanto non potevano essere rivelati né dal comportamento dei bambini, né da quello degli adulti.
A partire dagli anni Cinquanta e fino agli anni Settanta si assiste ad una espansione dell’osservazione diretta del bambino da parte degli psicoanalisti. Ester Bick introduce infatti alla Tavistock Clinic di Londra l’osservazione del lattante all’interno del corso di psicoanalisi dell’infanzia. Lo scopo della Bick era quello di sensibilizzare i giovani analisti, sviluppando in loro la capacità di avvicinarsi alle esperienze dei loro piccoli pazienti.
Nel campo della ricerca evolutiva ricordiamo il lavoro pioneristico di René Spitz, che ha utilizzato le tecniche empiriche della ricerca tradizionale insieme all’osservazione del bambino, per mostrare come una relazione disturbata con la madre ostacoli gravemente lo sviluppo psicologico del piccolo. Ebreo viennese di origini ungheresi, Spitz maturò il suo interesse per la psicoanalisi nello stretto rapporto che ebbe con Sándor Ferenczi, e svolse la sua analisi personale con Freud.
Nello scritto Il primo anno di vita del bambino, Spitz raccoglie una serie di osservazioni di bambini presso istituti in cui il rapporto con la madre risulta problematico. Lo psicoanalista ha osservato vari tipi di relazioni in cui il caregiver poteva essere rifiutante, ansioso, oppure ostile, o ancora completamente assente a livello affettivo. Nella relazione con queste madri i neonati sviluppavano sintomi psicosomatici quali vomito, dermatite atopica, disturbi della motricità, rifiuto di prendere contatto, insonnia, rigidità nell’espressione del viso e depressione anaclitica. Quando la relazione della diade veniva migliorata grazie ad interventi di aiuto, il bambino mostrava rapidamente segni di miglioramento. Nei casi di carenza totale di affetto circa il 40% dei bambini osservati erano morti nell’arco di pochi anni e i restanti erano andati incontro a gravi difficoltà nello sviluppo fisico e psicologico. In quest’ultimo caso le osservazioni sono avvenute in un orfanotrofio dove un’infermiera era costretta a prendersi cura di dieci bambini per volta, e non poteva prestare loro neanche un minimo di partecipazione emotiva.
Spitz ha sottolineato come nelle prime interazioni tra madre e bambino sia fondamentale la mediazione di aspetti espressivi ed emotivi: “I segnali che il bambino riceve nei primi mesi di vita appartengono alle categorie seguenti: equilibrio, tensione (muscolare e non), postura, temperatura, vibrazione, contatto, ritmo, tempo, durata, scala tonale, nuance dei toni, suono. […] Per il lattante i segnali del clima affettivo materno diventano un tipo di comunicazione al quale il bambino risponde in maniera totale. Queste risposte globali sono percepite dalla madre alla stessa maniera. […] Sono convinto che la donna che allatta al seno il suo piccolo, percepisce inconsciamente dei segnali che a noi sfuggono, e soprattutto che agisce in modo immediato, senza l’intervento di considerazioni coscienti. […] Non insisterò mai a sufficienza sul fatto che in questo processo evolutivo si hanno solo eccezionalmente fenomeni traumatici isolati, mentre si tratta sempre di effetti cumulativi di esperienze, stimoli, risposte ripetute all’infinito” (1958, pag. 46).
Qui Spitz fa riferimento al concetto di trauma cumulativo, che intende il trauma non come singolo evento dilaniante, ma come l’effetto di una serie di continue esperienze relazionali negative. Nel contesto in cui si muove Spitz, l’accento all’interazione non verbale tra la madre e il bambino è in netto contrasto con la visione del bambino della Klein, nella cui mente sarebbero già in azione complesse fantasie inconsce. La forte attenzione agli aspetti preverbali e al ruolo del corpo nella relazione, che è presente nel lavoro di Spitz, la ritroveremo nel paradigma dell’infant research, in cui si giungerà a formulare il concetto di conoscere implicito.
Bibliografia
Freud S. (1920), Al di là del principio del piacere, in: Opere vol. XI. Torino: Bollati Boringhieri
Spitz R.A. (1958), Il primo anno di vita del bambino. Firenze: Giunti