Empatia, intersoggettività e neuroni specchio

Empatia, intersoggettività e neuroni specchio

Percepire e comprendere le emozioni altrui è un’esperienza che ci connette ogni giorno con gli altri. Entriamo in empatia con qualcuno quando siamo capaci di metterci nei suoi panni, non solo tramite un ragionamento o un’astrazione, ma soprattutto in virtù del fatto che possiamo sentire le stesse sensazioni vissute dall’altro.

Immaginiamo di essere seduti ad un bar insieme ad un amico o ad un’amica per un aperitivo. Subito dopo aver assaggiato del cibo, improvvisamente sul volto del nostro compagno compare un’espressione di disgusto: le sopracciglia si aggrottano, la fronte appare corrugata, compaiono grinze sul naso e il labbro superiore si alza aprendo la bocca che lascia fuoriuscire la lingua. All’istante siamo in grado di cogliere la situazione, senza ragionarci sopra, ed è probabile che ci sentiamo anche noi un po’ disgustati in quel momento. Più la nostra attitudine empatica è marcata, più tendiamo a rispecchiare il volto di chi abbiamo di fronte con la nostra espressione facciale. Subito dopo il nostro amico ci dirà di non aver particolarmente gradito quella tartina, confermando a parole quello che avevamo già colto da soli. Come facciamo a capire intuitivamente cosa sta provando chi ci sta di fronte? Come riusciamo ad entrare in empatia gli uni con gli altri? A partire dalla nostra capacità di provare empatia, che conclusioni possiamo trarre rispetto alla natura umana?

Intorno ai primi anni ’90 un gruppo di ricercatori dell’università di Parma ha scoperto una nuova tipologia di cellule cerebrali, da cui possiamo partire per tentare di rispondere alle domande appena esposte. La proprietà che ha destato sorpresa nei ricercatori è che questi neuroni, collocati nella porzione motoria della corteccia cerebrale, non si attivavano soltanto durante l’azione svolta in prima persona, ma anche quando vediamo la stessa azione eseguita da un altro. In virtù di tale proprietà queste particolari cellule furono chiamate neuroni specchio. La scoperta avvenne inizialmente nel cervello del macaco e solo più tardi si è dimostrato che questi neuroni sono presenti nell’uomo, con funzioni addirittura accentuate. Prima di queste ricerche si pensava che i neuroni della corteccia motoria si attivassero solamente per implementare il movimento del soggetto, mentre i neuroni specchio rispondono anche a stimoli visivi e uditivi. In pratica, tornando alla scena di prima, mentre osserviamo il nostro amico al tavolo che afferra il bicchiere, versa l’acqua e sposta il vassoio del cibo, nel nostro cervello si stanno attivando le stesse aree motorie necessarie a compiere quei gesti. Per essere più precisi i neuroni specchio sono stati individuati nella corteccia premotoria e nel lobo parietale inferiore, aree del cervello interconnesse tra loro.

I ricercatori di Parma, guidati dal Prof. Giacomo Rizzolatti, hanno ipotizzato che la funzione di questo meccanismo stesse nella possibilità di comprendere implicitamente le intenzioni dell’altro a partire dalla semplice osservazione dei suoi gesti. So quel che l’altro sta facendo, per paragrafare il titolo del testo di Rizzolatti e Sinigaglia, proprio perché il mio cervello sta attivando le stesse aree cerebrali utilizzate dall’altro. Naturalmente esiste sempre uno scarto tra la mia personale attivazione cerebrale e quella dell’altra persona: il rispecchiamento non è mai perfetto e tiene conto della mente e della soggettività di chi osserva. Inoltre, più il nostro repertorio motorio è simile a quello della persona osservata, più la sovrapposizione delle aree motorie sarà marcata. In un esperimento (2005) è stato osservato che, una ballerina di danza classica riesce a rispecchiare dentro di sé l’osservazione di un balletto molto meglio di chi è estraneo a questa disciplina.  Quindi i neuroni specchio sono essenzialmente neuroni motori che rispondono anche all’osservazione e al suono di azioni e movimenti. Queste cellule per via delle loro potenzialità risultano coinvolte nelle capacità umane di imitare ed apprendere. Quando parliamo di imitazione ci riferiamo alla ripetizione di un gesto secondo il patrimonio motorio che appartiene all’osservatore. In questo caso più l’azione osservata appartiene al patrimonio dei movimenti di chi osserva, più sarà facilitata la sua replica. Percezione ed esecuzione motoria hanno bisogno di incontrarsi in uno spazio comune di rappresentazione nel cervello, e il sistema dei neuroni specchio garantisce questo incontro.

E per quanto riguarda le emozioni? I dati hanno suggerito l’esistenza di un funzionamento simile a quello del meccanismo specchio. In uno studio, Bruno Wicker e colleghi (2003) hanno sottoposto alcuni volontari ad un esperimento di risonanza magnetica funzionale articolato in due sessioni. Nella prima condizione i soggetti erano direttamente esposti a odori maleodoranti, mentre nella seconda i partecipanti osservavano filmati video raffiguranti varie espressioni facciali, tra cui quella del disgusto. In entrambe le condizioni si attivava la stessa porzione dell’insula anteriore sinistra, l’area del cervello implicata nell’esperire il disgusto. Quindi la vista di un volto disgustato attiva in maniera automatica le stesse aree coinvolte nella risposta emotiva all’odore maleodorante.

Torniamo alla scena iniziale: è grazie al riutilizzo delle nostre aree dell’insula implicate nel provare disgusto in prima persona, che possiamo comprendere l’esperienza spiacevole del nostro amico. Per spiegare questo meccanismo che fa leva sul riutilizzo delle aree cerebrali, Vittorio Gallese ha parlato di teoria della simulazione incarnata: alla vista dell’altro che agisce e si emoziona il nostro cervello simula, cioè imita internamente l’esperienza dell’altro, proprio in termini di movimenti ed emozioni, e quindi in un formato di rappresentazione corporeo (non simbolico), detto incarnato. Inoltre l’attivazione dell’insula sarebbe responsabile di quelle risposte viscero-motorie tipiche del caso, che ci fanno chiudere lo stomaco alla sola vista di un amico che prova disgusto per del cibo avariato. Senza queste reazioni vissute nel corpo non potremmo esperire così vividamente cosa sta provando l’altra persona, potremmo al limite averne una percezione cognitiva, ma senza riuscire davvero a metterci nei panni dell’altro.

Questi meccanismi ci permettono di avere una comprensione di tipo esperienziale di ciò che sta succedendo, generando in noi “rappresentazioni interne degli stati corporei associati a quelle stesse azioni” (Gallese, Migone, Eagle, 2006) e sensazioni che stiamo osservando. Un siffatto tipo di comprensione non esclude e non preclude l’esistenza di un altro tipo di comprensione a carattere più razionale, tramite cui costruire inferenze e ipotesi. Tuttavia, senza la prima avremmo solo un’impressione sbiadita degli altri e di ciò che provano. A riprova del carattere immediato e automatico di questo meccanismo si noti che, durante l’esperimento condotto da Wicker, a nessuno dei partecipanti era stata data istruzione di immedesimarsi con le persone dai volti disgustati che venivano proiettate sullo schermo. Lo stesso vale per l’esempio del bar: per provare disgusto non abbiamo bisogno di nessuno sforzo, di nessun atto di volontà, alla semplice vista del nostro sfortunato amico siamo in grado di provare la stessa sua emozione.

La scoperta dei neuroni specchio non ha fatto altro che sottolineare, ancora una volta, la predisposizione sociale dell’essere umano, già individuata da filosofi e sociologi. Siamo fatti per entrare in connessione diretta con gli altri, a partire dall’architettura del nostro sistema cervello-corpo. È però vero che empatia non significa necessariamente bontà. Anche due spadaccini coinvolti in uno scontro possono dirsi in empatia tra loro, nel senso che sono profondamente connessi, sono nei panni dell’altro proprio per capire meglio quale sarà la sua prossima mossa o il suo prossimo tentennamento. In ogni caso i neuroni specchio ci dicono che siamo predisposti per metterci in contatto e confrontarci con l’altro. In un articolo Vittorio Gallese (2010) ha specificato che “non è possibile concepire se stessi come un Sé, senza radicare questo processo di valutazione nella relazione con l’altro. […] La nostra identificazione sociale con gli altri è una caratteristica costitutiva di ciò che significa essere umani”. Ci sviluppiamo come soggetti grazie a una costante interazione col mondo sociale. L’idea è che la persona si costituisca e si arricchisca sempre a partire dalle relazioni con l’altro, già a partire dalla nascita. La mente nasce dalle primissime e fondamentali relazioni di accudimento e si alimenta di continui rispecchiamenti con i nostri simili. Ora sappiamo che anche nel nostro cervello esiste uno spazio neurale che rappresenta contemporaneamente le mie emozioni e quelle dell’altro, uno spazio che Gallese (2010) ha definito noi-centrico: “questo spazio diventa più ricco e sfaccettato, in relazione al più ampio spettro e significato dei rapporti interpersonali nel corso dello sviluppo”.

 

 

Bibliografia

Ammaniti M., Gallese V. (2014), La nascita dell’intersoggettività. Lo sviluppo del Sé tra psicodinamica e neurobiologia, Milano: Raffaello Cortina Editore

Gallese V. (2010), Il sé inter-corporeo. Un commento a “Il soggetto come sistema” di Manlio Iofrida, Ricerca Psicoanalitica, 3

Gallese V., Migone P., Eagle N. M (2006), La simulazione incarnata: i neuroni specchio, le basi dell’intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi. Psicoterapia e scienze umane, 3

Rizzolatti G., Sinigaglia C. (2006), So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano: Raffaello Cortina Editore

Uddin L.Q., Kaplan J.T., Molnar-Szackacs I., Zaidel E., Iacoboni M. (2005), Self-face recognition activates a frontoparietal “mirror” network in the right hemisphere: an event-related fMRI study. NeuroImage, 25, 926-935

Wicker B., Keysers C., Plailly J., Royet J-P., Gallese V.,Rizzolatti G. (2003),
Both of us disgusted in my insula: The common neural basis of seeing and feeling disgust. Neuron, 40, 2003